Quando si parla di sigari, il pensiero corre veloce a Cuba. È quasi automatico. I Cohiba, i Montecristo, le immagini di vecchi signori con il sigaro tra le dita in una piazza dell’Avana.
Tutto fa parte di un immaginario collettivo così radicato che sembra impossibile metterlo in discussione. Eppure, se si torna un po’ indietro nel tempo — e ci si sposta leggermente a est, su un’altra isola — si scopre una verità sorprendente che in pochi conoscono davvero.

Molto prima che Cuba diventasse sinonimo di tabacco pregiato, c’era un altro luogo dove tutto era già cominciato. Un territorio in cui il tabacco veniva coltivato, lavorato e fumato in forma arrotolata già secoli prima dell’arrivo degli spagnoli. Non un dettaglio, ma l’inizio stesso della cultura del sigaro. E no, non stiamo parlando per sentito dire: lo raccontano i cronisti del tempo, lo confermano gli archeologi, lo sanno bene gli intenditori più attenti.
Il luogo in questione è Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. È lì che — secondo i resoconti dei primi esploratori — gli indigeni Taino fumavano grandi foglie di tabacco arrotolate, un’abitudine rituale e quotidiana, molto prima che la parola “sigaro” entrasse in qualsiasi vocabolario europeo. Era una pratica sacra, ma anche sociale. Un modo per connettersi con la natura, con gli spiriti e con la comunità. Non una moda, ma una tradizione viva.
La Repubblica Dominicana e i sigari
La Repubblica Dominicana, oggi, è uno dei principali produttori di sigari al mondo. E non solo per quantità, ma per qualità. Marchi come Arturo Fuente, La Flor Dominicana e Davidoff (che ha spostato lì la produzione dal 1990) sono ormai simboli globali di raffinatezza. Ma quello che spesso sfugge è che questa eccellenza ha radici profondissime: non è “nata dopo Cuba”, ma è addirittura più antica. Un dettaglio che cambia tutto il modo in cui guardiamo alla storia del tabacco caraibico.

C’è una curiosa ironia in tutto questo. Mentre i sigari cubani erano celebrati e protetti dal mito della rivoluzione e dell’embargo, quelli dominicani si facevano strada in silenzio. A volte sottovalutati, spesso paragonati con sufficienza. Ma chi conosce davvero questo mondo sa che la tradizione del sigaro dominicano non ha nulla da invidiare a quella cubana. Anzi, in molti casi, la supera per cura artigianale, varietà delle miscele, capacità di innovazione.
Oggi, visitare le cigar factory di Santiago de los Caballeros è un’esperienza immersiva. Uomini e donne che lavorano a mano ogni singolo pezzo, con movimenti precisi e antichi. Ogni sigaro ha una storia, una ricetta, un’anima. E quel legame con il passato — quello vero, quello dei Taino — è ancora lì, vivo tra le dita dei torcedores e nell’aroma che si sprigiona a ogni accensione.
Alla fine, la domanda viene quasi spontanea: quante altre storie di eccellenza sono nascoste dietro le versioni ufficiali che diamo per scontate? Forse, per capire davvero cosa rende speciale un sigaro, bisognerebbe partire proprio da lì: dal luogo in cui tutto è cominciato, anche se il mondo ha imparato a guardare da un’altra parte.